Oggi è la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne. Nel 1981 fu scelto di istituire questa giornata proprio il 25 novembre, in ricordo di tre sorelle domenicane, le Mirabal, attiviste politiche che il 25 novembre 1960 vennero stuprate, torturate ed infine uccise per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo.
Un giorno per commemorare le vittime che di anno in anno sembrano aumentare inesorabilmente, ma anche un giorno per gridare al mondo che la lotta contro la violenza sulle donne non si deve fermare. Che i diritti civili, l’eguaglianza sociale e di genere dovrebbero essere un’urgenza a cui i governi dovrebbero lavorare.
Un giorno di manifestazioni, di conferenze e dibattiti sul tema, di panchine dipinte di rosse o piazze riempite di scarpe rosse. Ma di tutti quesi 25 novembre dal 1981 ad oggi cosa ci è rimasto? Che impatto hanno avuto sulle istituzioni e sui cittadini?
Quest’anno sembra tutto diverso.
Il 25 novembre nel nostro Paese ha un’intensità più forte, sull’onda dirompente del dolore profondo e la rabbia collettiva per la morte di Giulia Cecchettin. Oggi le piazze del nostro Paese si sono riempite di donne e uomini indignati, di attimi di silenzio e momenti di rumore: “il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce“!
Podcast, telegiornali e talk show di tutte le reti televisive pubbliche e private non parlano d’altro da giorni, dalla morte di Giulia.
E’ come se l’assassinio di questa giovane ragazza, per mano di quello che sembrava un “bravo ragazzo” proveniente da una famiglia “per bene“, avesse dato una sberla a tutti gli Italiani – comuni cittadini e membri delle istituzioni – sopiti dietro la comoda convinzione che tutti i femminicidi consumati nel nostro Paese fino ad oggi (106 da inizio 2023 e oltre 600 dal 2018), fossero solo opera di mostri malati o uomini cresciuti in un degrado sociale e culturale.
La morte di Giulia ci ha aperto gli occhi sull’urgenza collettiva del nostro Paese, di lotta ad un degrado sociale e culturale diffuso e capillare, frutto di un radicato patriarcato.
Lo scorso anno le porte dei Pronti Soccorsi italiani hanno accolto 14.448 donne vittime di violenza. Per alcune di loro, circa l’8%, non era la prima volta.
Agli atti di violenza fisica si sommano quelli di violenza psicologica frutto di stereotipi che spesso neanche riconosciamo e alle ingiustizie economico-sociali a cui le donne italiane sono sottoposte.
Secondo il World Economic Forum nel report 2023 sul gender-gap – il divario tra maschi e femmine – l’Italia è al 63° posto su 146 paesi monitorati. Sopra di noi ci sono Uganda e Zambia. In Europa siamo 25° su 35 Paesi.
In questi giorni si sono sentite tante voci, tante opinioni: chi colpevolizza le famiglie, chi vorrebbe maggiore educazione nelle scuole, chi richiede alle istituzioni leggi più severe.
La verità è che viviamo in una società patriarcale e quello che questa società ci trasferisce da quando nasciamo sono una serie di stereotipi che non riconosciamo, che ci abituiamo a vivere e che non ci consentono di andare a destrutturare questi stereotipi e queste problematiche e quindi continuiamo a vivere senza riuscire a riconoscere alcuni comportamenti violenti che invece sono molto gravi.
Le famiglie, la scuola, le istituzioni sono immerse in questa società e dunque il loro operato è frutto di questo pensiero.
La sera di quel terribile 11 novembre in cui il papà di Giulia ha salutato per l’ultima volta la figlia, andava in scena nel teatro della nostra sede operativa – Teatro Spazio Sfera di Bussero in periferia di Milano – “L’Invasione“, uno spettacolo tratto da una storia vera, sulla lotta contro la violenza sulle donne.
Abbiamo cercato di promuovere lo spettacolo nelle scuole medie superiori di secondo grado di Milano ed Interland. Su 35 scuole contattate, solo la professoressa di una scuola ha chiesto informazioni in merito, per poi tornare da noi qualche giorno dopo dicendoci “mi spiace ma ai miei studenti questo tema non interessa”.
Questo è lo specchio della realtà in cui viviamo: una diffusa cultura dell’indifferenza, l’idea distorta che “non sono cose che ci riguardano“.
E invece la vicenda di Giulia ha dimostrato proprio il contrario!
La convenzione di Istambul ha chiesto agli stati come il nostro che l’hanno sottoscritta, di attivare contemporaneamente tre azioni: la protezione, la prevenzione e la repressione.
Non servono solo leggi più severe o solo prevenzione nelle scuole con formazione ad-hoc, ma serve tutto.
Un cambiamento culturale come questo richiede un lavoro sistemico che coinvolga tutti, l’intera comunità educante (genitori, docenti, associazioni), le istituzioni (comuni, governo) e singoli cittadini.
Tutti siamo chiamati a fare la nostra parte e anche noi di Artorise ci stiamo interrogando su come entrare in rete con le comunità educanti dei nostri territori per una progettualità condivisa che possa avere un reale impatto.